Il leader eritreo sottolinea la necessità di sostenere la linea presa da governo italiano anche attraverso un cambiamento culturale nella lettura dei fatti e nella comunicazione

di Guido Talarico

L’Italia si è messa alla testa dell’Europa per dare vita ad una nuova e più proficua relazione con l’Africa. Roma vada fino in fondo, perseveri in modo che questa giusta intuizione trovi concreta attuazione e dia vita ad una nuova, positiva e più equilibrata stagione tra i nostri continenti”. Con queste parole il Presidente dell’Eritrea, Isaias Afewerki, che abbiamo incontrato a margine del Summit Italia-Africa e poco prima del suo rientro ad Asmara, ha commentato l’esito della riunione che qui a Roma ha messo a confronto, per volontà della Premier Giorgia Meloni, l’Italia e l’Europa con l’Africa.

Come giornalista appartengo alla vecchia scuola, uno di quelli che ha avuto il privilegio di fare l’inviato non navigando su google ma andando a visitare i paesi che doveva raccontare. Quando sette anni fa ho fondato africanmedias.com, un sito pensato per quel continente e quindi scritto in inglese e francese (e poi questa agenzia di stampa), ho pensato che fosse giusto attenersi all’insegnamento dei maestri e così ho cominciato a viaggiare anche in Africa il più che potevo. Uno dei paesi che ho visitato con maggiore frequenza è stata l’Eritrea. E mi è servito perché è proprio da Asmara che ho potuto guardare con maggiore serenità alla storia di questi due continenti dirimpettai. In quelle strade tracciate secondo i principi romani del cardo e del decumano, con quella edilizia piacentiniana che tanto ci ricorda l’estetista rigorista di tante nostre città, mi è stato più facile capire come stessero realmente le cose.

E la verità, quella che io almeno ho potuto verificare di persona in Eritrea come in Mozambico, in Guinea Conakri come in Marocco, in Etiopia come nel Togo, è questa. La narrazione che prevale in Europa sull’Africa è ancora intrisa di quel sentimento supponente e colonialista che da secoli caratterizza i rapporti tra il vecchio ed il nuovo continente. Solo che a noi non piace sentircelo dire. E’ una di quelle voci che continua a crucciare le nostre coscienze. Così seguitiamo ad imperversare con la nostra propaganda, che parte sempre dal tema della democrazia. Accusiamo molti se non tutti i paesi africani di essere delle dittature dove non c’è democrazia e non c’è rispetto dei più elementari diritti umani. Il che è una verità parziale perché chi la ripete dimentica di dire che i principali responsabili di questo ritardo etico e di tante disfunzioni, alcune anche drammatiche, sono da ricercare in Europa e in Nord America.

Abbiamo sfruttato e destabilizzato a piacimento dove c’è capitato. Abbiamo ucciso, derubato, deportato. Lo abbiamo fatto per interesse, noi, gli americani e ora, anche e abbondantemente, la Cina. Abbiamo basi militari ed interessi che vanno dal Marocco al Sud Africa, interveniamo con la propaganda, a volte sfruttiamo pure le ONG per destabilizzare e alla fine se non riusciamo a perseguire i nostri interessi usiamo la forza, cioè la corruzione e le armi. Talvolta, noi occidentali, agiamo anche in competizione con noi stessi perché ognuno ha i propri interessi da perseguire. La Libia è forse l’ultimo eclatante quanto fallimentare esempio del nostro modo di comportarci. Quello che cerchiamo e che ci prendiamo è quello che ci serve per stare meglio. Materie prime, gas e petrolio innanzi tutto, e forza lavoro. Prima le persone le schiavizzavamo e le portavamo a casa nostra in catene, ora, spinte dal bisogno, ci arrivano da sole sui barconi della disperazione.

E allora incontrare il Presidente Afewerki è una buona occasione per capire realmente come sono andate le cose al Summit di Roma. Però gli chiediamo prima dell’Eritrea, un paese di soli 6 milioni di abitanti che con questo leader, considerato a ragione il padre della patria, da più di 30 anni resiste alle mire espansionistiche di tutto il Corno d’Africa (tigrini in testa e ora pare anche gli Oromo del nobel etiopico Abiy), degli occidentali e di diversi potentati arabi. “Qui il tema non è l’Eritrea – mi dice Afewerki – l’Eritrea non ha problemi e sta bene come sta. Qui il tema è l’Africa. L’Italia si è messa alla guida di questo movimento che vuole stabilire nuove relazioni tra l’Europa e il nostro continente. E’ una buona cosa. Si vada avanti con decisione su questa strada, si prendano iniziative concrete che favoriscano una crescita di tutti”.

Insomma, sembra di capire dalle parole di Afewerki che l’idea della nostra Premier è buona ed è stata accolta favorevolmente dai leader accorsi a Roma, che l’Italia ha fatto bene ad avviare questa iniziativa Europa-Africa mettendola su basi di un confronto paritario, animato da un sano spirito costruttivo. Ma è apparso anche chiaro che ora tutti si aspettano fatti concreti. In altre parole c’è fiducia ma, considerata la scarsa attitudine occidentale a mantenere le promesse, si vuole vedere cosa accadrà nei prossimi mesi.

Ma il Presidente dell’Eritrea nel raccontarli le sue impressioni di questo viaggio romano è andato oltre, soffermandosi sul ruolo della cultura e della comunicazione.  “Ci vuole maggiore, reciproca comprensione – ha spiegato il Presidente Afewerki – e questo è un fatto culturale. Dobbiamo conoscere meglio le realtà con cui ci confrontiamo. In questo ambito un ruolo decisivo lo ha la comunicazione. Avete il compito fondamentale di facilitare la conoscenza e quindi la comprensione. E’ una responsabilità importante, che dovete prendervi nell’interesse comune”.

Le parole di Afewerki mi riportano alla memoria la prima volta che andai ad Asmara. Presi tutte le accortezze che si adottano quando si vanno in posti di guerra. Una precauzione inutile, girai senza avvertire il minimo rischio ed in piena libertà. In albergo una delle prime sere che ero li mi confrontai con un imprenditore eritreo, una persona colta, facoltosa, cosmopolita. E cominciai con il solito cahiers de doléances di noi europei: la mancanza di elezioni, i diritti umani, la guerra. Lui mi guardò con un sorriso sornione dritto negli occhi e mi disse: “è democrazia quella che gli americani hanno importato in Iraq o in Afghanistan? È democrazia quella del vostro amato partner saudita? Quanto influenzano le multinazionali il voto dell’elettorato americano? La differenza tra l’Africa e l’occidente è soltanto il tempo. Le nostre sono democrazie come le vostre del secolo scorso, giovani, deboli e grezze. Con un po’ di tempo, e se la smetterete di sfruttarci, miglioreremo e poi arriveremo anche noi ad essere sofisticati come voi nei modi e nelle maniere”.

Forse per guardare meglio i nostri dirimpettai africani e migliorare i rapporti converrà partire da qui. Dal tema della cultura e della comprensione reciproca. Forse converrà ripartire da Betrand Russel quando diceva “Abbiamo due tipi di morale fianco a fianco, una che predichiamo ma non pratichiamo, e un’altra che pratichiamo ma di rado predichiamo”.

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